Truth Well Told. Oggi una comunicazione diretta e veritiera, in qualche modo etica, è la chiave per recuperare e valorizzare le radici dei brand? Parlando di “verità ben raccontata”, come si può attualizzare questa frase in un contesto delicato fra greenwashing e ritorno d’immagine?
Truth Well Told non soltanto è per me uno degli slogan più belli e riusciti del copywriting ma è anche il motto con cui io sono “nata e cresciuta” nel mondo dell’advertising, essendo appunto il claim della McCann Erickson, l’agenzia con la quale studiai pubblicità e copywriting nell’ormai lontano 1993. Truth Well Told, però, non è soltanto uno splendido e riuscitissimo claim, nonché un eccellente esempio di copywriting, bensì una mission, che è qualcosa di più importante. Che le bugie abbiano le gambe corte, lo si impara da bambini, ed è un concetto che in pubblicità, a mio parere, dovrebbe essere scolpito a lettere cubitali nelle menti di tutti coloro che lavorano nell’ambito. Di fatto, i pubblicitari, i creativi, questo eravamo e siamo oggi più che mai chiamati a fare. Dire la verità su ciò che vendiamo – sia esso un prodotto o un servizio – ma dirla come nessun altro sa fare: in maniera accattivante, originale e – perché no – perfino geniale. Verità ed etica, banale dirlo, vanno a braccetto. In questo caso però, si potrebbe dire provocatoriamente che, comunicare senza mentire, per un brand, è anche una questione di tornaconto. Come dice il detto citato poche righe fa, infatti, mentire attraverso l’advertising è una strategia che è destinata ad un fallimento sicuro nel lungo termine, ed è assai facile comprenderne il perché. Se menti, il cliente avrà con te un rapporto occasionale, ma mai una relazione seria e duratura. E allora, ecco che il punto torna in quell’unica parola che è essenziale, vitale, nella comunicazione pubblicitaria: creatività. I creativi devono saper essere creativi, che poi vuol dire esattamente essere in grado di dire la verità, ma di dirla bene. In quanti lo sono davvero? Perché (e scusate se prendo ad esempio la mia specializzazione) tutti sappiamo scrivere, ce lo hanno insegnato a scuola, ma non tutti siamo dei copywriters.
Quanto potrà essere importante la figura di un creative supervisor? Di una figura che sia in grado di avere uno sguardo sulla totalità del processo della creazione di un progetto?
Personalmente non sono molto a favore della creazione di “titoli” o “figure” nuove, in special modo quando si rischia, in nome della trasversalità, di finire facendo un po’ tutto e male. Per come la vedo io, il “creative supervisor” si colloca in un’area che rappresenta una sorta di mix tra un direttore creativo e un account, una “miscela” che – attenzione – non sempre può risultare vantaggiosa. Credo che, ancora oggi, un buon Direttore Creativo sia più che sufficiente a garantire uno sguardo vigile sull’intero processo creativo di qualsiasi progetto. Va da sé che, nella frase, la parola su cui andrebbe posto l’accento, è “buon”.
Intelligenza artificiale. Riuscirà la mente dello stratega della comunicazione a rimanere centrale nel nuovo corso della comunicazione? E’ possibile riflettere sul metodo in cui le agenzie potrebbero sfruttare questi strumenti creativamente? Riusciremo mai a trovare un punto di incontro e imparare a utilizzare in maniera sostenibile l’intelligenza artificiale?
Sono più che mai convinta che a volte, per andare avanti, sia necessario fare un passo indietro. Il nostro cervello, che negli ultimi anni ha ricevuto ogni sorta di “aiuto” (da parte della tecnologia) per lavorare meno, oggi ha una sola necessità: quella di tornare a pensare. Ebbene sì. Di tornare a esercitare (esattamente come si fa con gli altri muscoli del corpo umano) le sue facoltà intellettive. Per farlo c’è bisogno di concentrazione e di profondità. Non di ulteriori strumenti che ci allontanano ancor di più da questi due concetti che sono fondamentali, in special modo quando si parla non solo di pensiero, ma di pensiero creativo. E attenzione, non si tratta di essere bacchettoni, tutt’altro. Alla domanda “se i creativi riusciranno a rimanere centrali nel nuovo corso della comunicazione”, la mia risposta è “speriamo di sì”. Speriamo che non si facciano abbagliare o tentare da nuove tecnologie che basano i loro algoritmi sulla media (e non di certo sull’eccellenza) e che sono l’antitesi della profondità di pensiero; mezzi che non alimentano le idee, bensì l’idea di un escamotage. Più facile, più veloce: in una parola, mediocre. E allora, torniamo piuttosto a rispolverare le grandi lezioni che ci hanno lasciato i maestri della pubblicità, Bill Bernbach, David Ogilvy, Leo Burnett e a riflettere sulle campagne che hanno fatto la storia di questo nostro bellissimo mestiere, come quella, celeberrima, per il maggiolino Volkswagen (Think small), o la geniale campagna Avis “We Try Harder” del 1962 della Doyle Dane Bernbach che riuscì a trasformare l’inconveniente di essere un numero 2 in un tremendo vantaggio. Ecco, per pensare quelle cose lì, ci volevano profondità e concentrazione. Chiamiamola pure “intelligenza reale”. Truth Well Told appunto. Con tutto il rispetto, altro che ChatGPT.