Truth Well Told, la verità ben raccontata, e molto altro…
Parlando di “verità ben raccontata”, come si può attualizzare questa frase in un contesto delicato fra greenwashing e ritorno d’immagine?
Già più di un secolo fa, con il motto “Truth well told”, Erickson invitava alla trasparenza ed alla chiarezza nel raccontare il proprio brand. Bisognava saperlo fare nel modo giusto. Oggi questo risulta ancora più importante: quando lo storytelling viene percepito come qualcosa di fake e di artificiale, come nei casi di green o social washing, il rischio per la brand reputation è altissimo.
Un brand che si cela dietro ad una narrazione di valori etici di cui indebitamente si appropria, raccontando una ingannevole verità solo per farsi conoscere, verrà percepito come opportunista, perdendo di credibilità.
Partendo dall’assunto che, in particolare per le generazioni future, Gen Z in testa, la trasparenza nel comunicare i propri valori etici ed il dare ad essi seguito con azioni concrete, risultano essere invece fattori cardine nella costruzione della percezione di autenticità e di affidabilità di un brand dal punto di vista del consumatore , uno storytelling con-vincente deve essere necessariamente supportato da azioni coerenti con i messaggi veicolati e da dati misurabili, che facciano percepire il brand come autentico.
La comunicazione, oggi, non ha più solo fini commerciali, ma diventa sostenibile: I brand non devono solo persuadere il consumatore a comprare un dato servizio o un prodotto, ma piuttosto convincerlo attraverso la sua reputazione del perché dovrebbe essere percepito come migliore rispetto alla concorrenza. Per farlo deve mostrarsi affidabile attraverso la coerenza tra il dire ed il fare e la trasparenza nel raccontarsi.
Un buon storytelling consente di narrare ai propri stakeholder storie che li coinvolgono nelle varie scelte dell’impresa in maniera trasparente e coinvolgente, senza per forza utilizzare forme di comunicazione manipolatrici e troppo spesso portatrici di verità ingannevoli.
Quanto è importante, nel campo della comunicazione, una figura che sia in grado di avere uno sguardo sulla totalità̀ del processo della creazione di un progetto?
Una figura in azienda, non necessariamente dirigenziale, come ad esempio può essere un Project Leader o un Project Manager, è bene che possieda le competenze digitali e tecnologiche che l’accelerazione verso l’innovazione post pandemia ha fatto emergere. Deve poter avere una overview dell’intero progetto, avendo contezza di quali processi sottostanno ad ogni step e di quali reparti sono coinvolti nelle varie fasi.
Possedere competenze trasversali e conoscere i punti di forza del proprio team di lavoro , così come le sue debolezze, consente l’ottimizzazione di alcuni passaggi e la possibilità di un eventuale intervento tempestivo ed efficace in caso di problematiche emergenti. In un’ottica customer centred, è bene ricordare che il cliente vede un solo unico processo.
Alla luce di questo fatto è ancora più vero che ragionare per silos funzionali non è probabilmente la scelta migliore. Essere oggi un’agenzia design driven , significa porre attenzione non tanto al prodotto/servizio offerto in sé, quanto alla modalità con cui questo viene percepito dalle persone come valore aggiunto nelle loro vite.
Per questo risulta fondamentale non solo la fase di architettura del progetto e la sua implementazione tecnologica, ma anche e soprattutto quelle che sono fasi preliminari come la Discovery delle esigenze del cliente e di Experience dell’utente finale.
Il processo è molto meno lineare e semplice di come appare, quindi. Una figura in grado di allineare i reparti, di trasferire le esigenze e le problematiche, capace di intuire, di dialogare e di comunicare internamente ed esternamente, è quindi imprescindibile, laddove la priorità assoluta resta quella di ottimizzare l’esperienza del cliente.
Riusciremo mai a trovare un punto di incontro e imparare a utilizzare in maniera sostenibile l’intelligenza artificiale?
L’intelligenza Artificiale è sicuramente il nuovo megatrend e impatterà in maniera importante su molte delle attività come le conosciamo oggi. Tuttavia, non mi concentrerei su quello che l’AI può fare, ma su quello che non può fare: sostituire la creatività e l’emozione.
Il fattore umano, infatti, resta centrale perché per quanto l’Intelligenza artificiale possa essere in grado di velocizzare le ricerche e portare sul tavolo soluzioni valide (e non), pescando da una mole gigantesca di dati, essa rimane pur sempre un mezzo che in mano alla persona sbagliata non porta i risultati attesi. L’AI deve essere interpretata per quella che è: una estensione dell’uomo, non una sua sostituzione.
Uno strumento che consenta a noi esseri umani di sfruttare i vantaggi e le opportunità, arricchendola con la nostra creatività e sensibilità, perché quello che fornisce sono fredde rielaborazioni, senza un vero sentimento, né una vera emozione.
Per chi vive nel mondo della comunicazione, ma non solo, è ovvio che la capacità di suscitare ed anche di provare emozioni, è l’aspetto preponderante: emozionare significa coinvolgere. Diversamente non stiamo comunicando, stiamo probabilmente solo trasmettendo informazioni.